Il racconto di michele:

L’immigrazione, per come si verifica in Italia, era una sequenza di filmati del tutto simili fra loro. Ponti di imbarcazioni di vario genere ricoperti di persone in piedi, una voce narrante la storia del loro viaggio insidioso in pochi punti riassuntivi, le implicazioni politiche del fenomeno e i numeri riportati. A volte, ricordo, si parlava di corpi. Quelli dei molti che hanno sperato invano. Ma tutto questo rimaneva, nella forma di immagini in agitazione, dietro agli schermi. Restava nell’angolo in alto a sinistra della cucina o sopra un mobile in salotto. Non ho mancato di riflettere su certi eventi e credevo di essermi avvicinato molto alla comprensione della verità. Ora, più di prima, realizzo quanto fossi distante dalla giusta emozione e dal pensiero consapevole che sono realmente appropriati per quanto accade. Ho partecipato a due sbarchi, il primo a Livorno il 23/12/2022 e il secondo a Carrara il 29/01/2023, ma è solo dopo aver visto, dallo stesso angolo della stessa cucina, le immagini degli eventi di Crotone che ho capito che cosa è andato succedendo nelle acque del mio paese per anni.

Volevo riportare le mie impressioni sugli sbarchi a gennaio, ora non posso non farlo. Avevo dormito solo un’ora e mezza quando mi svegliai alle quattro e quaranta del 23 dicembre, un po’ per l’emozione, un po’ perché non ero abituato ad addormentarmi presto. Sono partito dal comitato con una macchina di servizio e ho raggiunto un molo evidenziato da fari e parzialmente occupato dalle tende delle varie associazioni. Un piccolo gruppo di volontari di Croce Rossa era già presente, alle sei e cinquanta, intento a preparare alcuni materiali e sistemare un gazebo, quello che avrebbe accolto i primi passi dei migranti sul suolo italiano. Rimanemmo dietro la darsena in attesa per poco più di un’ora, durante la quale un briefing rese noti i nostri ruoli. Venni assegnato alla “tenda della scabbia” e iniziammo a indossare le tute protettive all’arrivo della nave. Tutti i processi furono più lenti di come avevo immaginato e, per la tutela di ognuna delle figure, c’era un ordine da rispettare. Il gruppo che sarebbe salito a bordo per aiutare i migranti nello sbarco doveva essere registrato del nostromo, per garantire la sicurezza dell’equipaggio, mentre il prefetto doveva entrare in contatto con il capitano. Una prima visita rivelò che alcuni passeggeri si erano ustionati chimicamente i glutei, sedendo per giorni su superfici macchiate di carburante. Questi ebbero la precedenza e furono trasportati proni sulle barelle fino alle ambulanze e, poi, all’ospedale.

A metà sbarco, lo screening di CoViD-19 e scabbia riferì di un potenziale malato della seconda. Fu accompagnato fino alla mia tenda e, quello, fu il mio primo contatto ravvicinato con quella dimensione. Era un ragazzo giovane, probabilmente di poco più grande di me e non parlava inglese. Allungai il braccio verso di lui con una bottiglietta di acqua naturale in mano e la prese volentieri, ma non volle nient’altro. I minuti durante i quali attendevamo l’arrivo del medico furono quelli di maggior immersione. Stavo lì, combattuto interiormente fra il voler instaurare una comunicazione e il temere che questa potesse recargli un disturbo. La distanza linguistica, di certo, non era di aiuto. Il medico arrivò, accompagnato da un mediatore culturale di lingua araba che fece da tramite anche per le procedure di rilevamento dei parametri vitali nelle quali fui impiegato. Si rivelò non essere contagiato dalla scabbia e fu portato, come gli altri prima di lui, oltre la prima area di accoglienza. Prima che uscisse dalla tenda, chiesi al mediatore di augurargli buona fortuna da parte mia perché, nonostante, teoricamente, il peggio fosse passato, non era di certo ancora libero da ogni preoccupazione. A sbarco quasi ultimato, fra gli ultimi dei 108 migranti, fu individuato un caso di scabbia che, questa volta, si rivelò essere tale. Mi occupai di lui nel medesimo modo ma, per motivi pratici, fu accolto in una tenda diversa che, si prevedeva, non sarebbe servita ulteriormente per il suo scopo precedente. Era la tenda in cui, fino a poco prima, erano stati effettuati accertamenti di tipo psicologico e ginecologico per la salute delle donne che avevano affrontato il viaggio. Il paziente affetto da scabbia regalò un onesto ed esaustivo sorriso quando io e l’infermiera nella tenda gli fornimmo da mangiare. Divorò avidamente tutto e si mise a riposare in attesa del medico per la visita. Questo mio “primo sbarco” fu notevolmente emozionante e continuò a insinuarsi nei miei flussi di coscienza per diverse settimane, diventando, naturalmente, il portabandiera della volontà di ripetere l’esperienza in occasione del 29 gennaio. In quell’occasione fui assegnato al passaggio di materiali dalla banchina al ponte di coperta della nave e, questi, consistevano in kit di vestiario e igiene personale raggruppati per taglia in scatole da cinque. Ogni kit conteneva un cambio di abiti comodi, ciabatte, giacchetto invernale, sapone e shampoo.

 I kit per i bambini e quelli per le donne contenevano piccole aggiunte come, ad esempio, giochi per i primi e assorbenti per le seconde. Furono ripetute le stesse procedure della volta precedente ma i migranti, anziché risultare invisibili dall’esterno fino ad avvenuta discesa, stavano in coperta a guardarci, a guardare il molo farsi più vicino. Sorridevano e gesticolavano, emulando la forma del cuore con le loro mani, mandandoci baci, mostrando i pollici all’insù. Vidi, attraverso gli occhiali protettivi, un amalgama di gratitudine, paura e sollievo. Avevo davanti l’esatta espressione, scolpita su una decina di volti giovani, di chi stava pensando: “Ce l’ho fatta sul serio”. Rispondemmo ai loro segnali, perché in nessuna lingua può intimorire un cuore fatto con le mani e, quando ho citato la paura come tessera del loro mosaico espressivo, non mi riferivo solo al mare aperto. Mi resi conto di una cosa quasi immediatamente, guardando i volti di quelle persone in quel momento. Non c’era solo gratitudine, avevano paura. Ho pensato: “stanno facendo quei gesti perché non sono sicuri che saranno trattati bene. Lo fanno per comunicare con noi e cercare di capire che tipo di persone siamo”. A quel punto sentii il bisogno di versare una lacrima ma lo evitai concentrandomi sul da farsi. Facemmo loro capire con il nostro entusiasmo per il loro arrivo che non avevano nulla da temere, che non saremmo stati più minacciosi del mare. In questi giorni vengono sparpagliate migliaia di parole, fiotti di frasi, i telegiornali sembrano bocche di nauseati alla balaustra di una nave ma, sulle navi vere, ci sono persone cui non importa di punire i responsabili. Chiedono solo, a chi, comunque, tornerà a casa a dormire in un letto caldo, di essere tratti in salvo e di non culminare la disperazione continua della propria vita con un naufragio.

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